"Quel lieve danzare di molecule"
Viola Scaglione –
direttrice della compagnia Balletto Teatro di Torino (BTT)
01.04.2021
foto: Lisa Evteeva
video: Sofi Pashkual, Lisa Evteeva
– Buonasera Viola, sono molto lieta di conoscerti. Racconta un po’ di te, della tua famiglia, della tua formazione personale.
– Allora, diciamo che sono un po’ figlia d’arte nel senso che il mio papà era un regista e la mia mamma è una danzatrice. La mia mamma è ancora viva, il mio papà purtroppo no, e quindi sono cresciuta in una casa dove l’arte era una cosa normale. Per cui ogni tanto prima, adesso non più, mi sono fatta la domanda: se fossi nata in un’altra famiglia cosa avrei fatto? Non lo so, sono nata in questa e penso però sempre di più che sia nell’DNA e quello che sto facendo mi appartiene. Sto scoprendo sempre di più anche se la mia strada è verso la danza, però la sfera del mio papà ci è tanto presente. Io lavoro un po’ in maniera come se fossi una regista pur non avendo studiato da regista, però abbiamo fatto anche degli incontri con le persone che hanno lavorato con il mio papà e dai loro racconti mi sono resa conto che il suo modo di lavorare è molto simile al mio. E quindi sono un po’ tra il papà e la mamma. Ho cominciato a studiare danza quando avevo sei anni e poi non ho mai smesso. Ma devo dire che non ho mai fatto solo la danzatrice nel senso che mi è sempre interessato il mestiere del coreografo, il lavoro dietro le quinte, quindi l’arte a tutto tondo. E adesso che dirigo ormai da più di quattro anni la compagnia, ho capito finalmente qual era la mia missione. Infatti sono andata anche all’estero ma sono sempre tornata a Torino perché sentivo che dovevo fare qualcosa a Torino e nel mio piccolo sto continuando a costruire come ha costruito la mia mamma, come ha costruito il mio papà nell’altro ambito. Mi piace costruire e spero che rimanga nel tempo, cioè che non sia legato a me, ma quello che sto facendo e si organizza una specie di struttura che poi può andare avanti.
– Ho letto anche che hai studiato al liceo linguistico.
– Si, ho anche cominciato l’Università, però poi non riuscivo con il tempo e mi sono detta: danzare, si può danzare ora, e studiare – potrei studiare dopo. Però non ho mai fatto. Adesso vorrei tornare, mi piacerebbe fare antropologia, ma non so se lo farò. Devo essere onesta, ho scelto il liceo linguistico perché avevo meno ore e potevo dedicare più tempo alla danza. Però adesso le lingue paradossalmente le ho imparate molto di più sul campo perché ho sempre i danzatori stranieri e per tre anni la lingua della compagnia era lo spagnolo, adesso l’inglese. Perché non avendo solo italiani nel gruppo c’è sempre una lingua universale e a secondo di chi c’è adesso appunto è l’inglese. Poi, chi lo sa...
– Quando hai studiato la danza, è stata la danza classica?
– Si, la mia formazione era classica, ho cominciato come la danzatrice classica, ho fatto fino ad un certo punto fino a quando pensavo di dover seguire quello che mi dicevano che dovevo fare e ho fatto la ballerina classica. Poi in un momento quando mi hanno dato un ruolo molto difficile che io ho deciso di portare a termine, lì mi sono detta: bene, hai portato a termine questa cosa e adesso scegli la tua strada che è la danza contemporanea. Quindi non rinnego assolutamente la danza classica con cui continuiamo ad allenarci però la nostra compagnia è la compagnia di danza contemporanea e io sono una danzatrice contemporanea. Contemporanea vuol dire per me essere presente, quindi anche la danzatrice classica per me è contemporanea se è presente.
– È chiaro che il balletto classico ti ha influenzato, magari hai qualche balletto, qualche compositore preferito?
– Allora come i balletti classici io sono una fun di “Gisele” nel senso che trovo che sia estremamente contemporaneo. La scena della follia per me è una scena da teatro, non è di danza, va al di là, è un’espressione dell’essere umano, quindi la trovo un’opera incredibilmente contemporanea. Compositori... mi piace cambiare, mi piacciono tanti generi, mi piace la musica classica, mi piace la musica elettronica, mi piace la musica pop, mi piace la musica in generale, non posso dire di avere una preferenza perché non mi piace limitarmi. La musica comunque fa parte della mia vita e anche del lavoro della compagnia.
– In quale momento della tua vita ti sei sentita portata per la danza contemporanea? In quale direzione volevi andare?
– Allora, mi sa che verso 24 anni ho deciso di andare via dalla compagnia torinese, volevo andare via ma non sapevo cosa stavo cercando. Con la compagnia però siamo andati al festival di Maiami a fare uno spettacolo e io ho visto lì danzare una compagnia di danza contemporanea di Madrid. Li ho visti in scena ed ho detto: ecco! Io questo voglio imparare. Ma non era la tecnica che mi affascinava, era la loro naturalezza con cui stavano in scena. Il portare l’essere umano, essere persona in scena e non un po’ quello che c’è l’attenzione che magari hai quando affronti qualcosa della danza classica. Ma non voglio dire che non ci sia l’attenzione alla danza classica. Io volevo imparare quel modo di essere se stessi in scena, quindi quando li ho visti, ho conosciuto poi uno dei danzatori e mi ha detto: “Vieni a Madrid!” E io sono andata a Madrid. E così ho cominciato con un lavoro con questa compagnia di SNDS, tutto un lavoro di floorwork che io non avevo mai fatto. Avevo già comunque prima cominciato a toccare dei punti, ho fatto un mese a Parigi al conservatorio di Boulogne seguendo una docente di danza contemporanea però la vera svolta è stata il mio trasferimento in Spagna dove sicuramente avevo bisogno di togliermi eticchetta di “figlia d’arte”. In Spagna ero Viola e basta. E questo per me era già un grande traguardo. E poi ho cominciato a capire che tipo di danza comtemporanea volevo affrontare. E poi da lì sono andata avanti nei vari stili. Perché quello che non mi piace fare è accomodarmi. Che non vuol dire essere scomodi, ma sono curiosa, mi piace la flessibilità che si ha quando si deve passare da uno stile all’altro.
– Vuol dire che non c’è un’unica idea, un unico stile con cui potresti definire la direzione di BTT?
– Allora, secondo me lo stile di BTT è quello di avere dei valori molto chiari. I valori sono la cosa più importante che possono essere rispetto alla condivisione, i valori umani che sono universali. Intorno a quelli poi noi andiamo a lavorare le tecniche però se non ci sono quelli... Quindi mi interessa molto di più... ultimamente dico una cosa che spaventa un po’: io non cerco i danzatori, io cerco le persone interessate ad esprimersi attraverso questa forma d’arte. Ma anche il canto è una forma d’arte e la pittura è una forma d’arte, potessi, mi esprimerei con tutto, ma non si può fare tutto. Forse lo stile di BTT è di allenare la mente e allenare il corpo nella stessa misura. Perché se la mente e il corpo non sono allenati per me manca sempre qualcosa. E questo allenamento è anche legato alla grande generosità che porta a una flessibilità che non è una flessibilità fisica, ma una flessibilità mentale. Quella di saper riconoscersi in situazioni diverse e avere una capacità anche di analisi: dove sono, cosa sento, chi sono in questo momento.
– Quando sei diventata la direttrice della compagnia essa esisteva già?
– Si, quest’anno abbiamo festeggiato 40 anni di attività e di sicuro non grazie a me, ma grazie alla mia mamma che l’ha costruita e che l’ha diretta per un sacco di anni. Ma anche grazie a tutti i coreografi che ci sono passati. Perché noi abbiamo avuto varie fasi. Prima quando la mia mamma danzava era tutto un po’ alla sua immagine, quindi lei sceglieva i coreografi, lei sceglieva gli autori, poi siamo passati a diventare una compagnia d’autore, abbiamo avuto per più di quasi 15 anni un solo autore Matteo Levaggi che era l’unico coreografo e che ha plasmato la compagnia con la sua immagine, con la sua visione. E poi dopo siamo passati ancora ad avere i coreografi residenti come, per esempio, Marco de Alteris e poi abbiamo cominciato ad invitare anche gli altri. E quando mi è capitata un po’ per caso la direzione perché stavo cercando a chi affidarla, ho detto: va bene finché non trovo la dirigo io. E poi sono rimasta. Anche la mia mamma che è molto critica un giorno mi ha detto: “Non so cosa stai facendo, ma sta andando bene”. E allora da lì è venuta più fuori la mia natura che è quella di non affidarsi a un solo coreografo. Quindi il nucleo, diciamo l’impronta la do io attraverso la scelta di questi autori. Ogni autore viene scelto da me per intuizione, per condivisione di visioni, per poetiche differenti perché ha qualche cosa da dare e da condividere con noi.
– Allora, la maggior parte di lavoro che fai a parte danzare è il lavoro di regista, elaboratrice delle idee di danza?
– Si, anche se, e questo ci tengo a sempre dirlo, il BTT non sono io, la mia mamma o chi c’è stato, BTT è un gruppo, una squadra, un ecquipe, un teem di lavoro, in cui c’è un grande dialogo. Anche i danzatori, le persone che ci sono dentro la compagnia non sono degli esecutori, sono protagonisti, condividono con me tutto, dialoghiamo, ci confrontiamo, poi è chiaro che c’è una direzione, le scelte, le decizioni le prendo io, alcune sono estremamente condivise, le altre no. Io sono un Ariete, ho le mie intuizioni che voglio assolutamente seguire. Però ci tengo a dire che BTT è una cellula fatta di tante cellule.
– Puoi raccontare un po’ di gruppo, di danzatori, come si chiamano, da dove provvengono?
– Le persone variano. In questo momento che è un po’ difficile non siamo proprio stabili, ma allora di Torino ci sono solo io e un’altra ragazza che è proprio nata e cresciuta a Torino. Poi abbiamo un napoletano che si chiama Flavio Feruzzi, poi abbiamo un ragazzo sardo che si chiama Emmanuele Piras, poi abbiamo Lisa Mariani che è di Cremona, Nadia Guzuel che è tedesca e poi adesso siamo alla ricerca di altri due danzatori. Nel frattempo abbiamo con noi ogni tanto Paolo Piancasselli che è di nuovo italiano e abbiamo avuto fino a dicembre Calvin che era tedesco, Sebastian che era londinese. Mi piace anche quando andiamo in tournee e conosciamo le altre culture, mi piace avere in compagnia anche uno scambio culturale, quando c’è un confronto con le culture diverse. Quindi non è sempre deciso però diciamo che questa è una cosa bella di non essere tutti dello stesso posto.
– Sono tutti i danzatori professionisti o c’è qualcuno che ha cambiato la sua carriera oppure ha lasciato un campo e poi è diventato appassionante di danza?
– Sono tutti professionisti. Emmanuele per esempio in realtà non faceva proprio danza e quando ci siamo incontrati e abbiamo cominciato a fare dei progetti lui ha deciso di diventare il ballerino. E allora si è messo in corsa a recuperare quello che doveva e adesso è un ballerino in tutti gli effetti. Si, ci sono stati degli incontri che hanno provocato dei cambiamenti magari di direzione. Lui aveva fatto comunque il liceo artistico, quindi era nel mondo dell’arte.
– Quando guardo i vostri performans sembra che voi viviate come un unico organismo, tutti insieme siete legati da un’unica idea.
– Si, questi valori comuni ci uniscono sicuramente, mi piace pensare che noi fossimo come un ingranaggio e ogni pezzo fa muovere la macchina. Siamo insieme e individuali nello stesso tempo.
– C’è molta improvvisazione nel vostri spettacoli?
– Dipende dalla produzione. Ci sono delle produzioni fatte dai coreografi per cui non c’è l’improvvisazione però c’è un grande settore dell’improvvisazione che è proprio il fulcro della compagnia per cui noi ci alleniamo ad improvvisare, facciamo dei laboratori per improvvisare perché non è casuale l’improvvisazione, va studiata. Come c’è lo studio per una tecnica, anche l’improvvisazione è una tecnica.
– Come scegliete la musica?
– Quando c’è il coreografo lasciamo al coreografo. Se no, quando lavoriamo tra di noi dialoghiamo e decidiamo. Adesso Emmanuele fa anche della musica e collaboriamo anche con l’istituto musicale “Rivoli musica” e lui ci propone i musicisti a volte più lontani dal nostro mondo e noi facciamo tutto un lavoro con questi musicisti proprio per non abituarci anche a non scegliere tutto quello che ci è più comodo.
– La maggior parte dei vostri spettacoli vengono accompagnati dalla musica viva. È una cosa principale per voi?
– Allora, diciamo che è dovuta questa collaborazione con “Rivoli musica”, ma io di questo sono felicissima perché lavorare con la musica dal vivo è un lusso, non è facile, soprattutto di questi tempi per cui diciamo che forse da soli non riusciremmo ad avere le risorse economiche per lavorare con dei musicisti anche se appena possiamo lo facciamo per conto nostro. Con questa collaborazione abbiamo tanti spettacoli con la musica dal vivo ed è molto diverso. È una cosa a cui tengo molto.
– Che ruolo fa lo spazio per voi, lo pensate come il luogo da adattarsi o da pari a pari?
– Allora lo spazio è un elemento d’indagine per cui diventa come un partner, come una musica. Ogni spazio ha la sua temperatura, il suo ambiente. Ogni palcoscenico è diverso. Quindi c’è un tempo, un momento in cui tu ti devi proprio immergere questo spazio, riconoscerlo, sentirlo, analizzarlo. E come ti muovi in quello spazio non potrai muoverti in un altro. Sembra folle ma è così secondo me. Perché l’architettura è un altro elemento che influisce su quello che tu sei. Dipende molto però che lo includi nella tua visione e per me è una cosa fondamentale.
– Quanto al pubblico, lo sentite mentre fate lo spettacolo?
– Assolutamente sì, e questa è la cosa che in quarantena ci mancava tantissimo perché comunque io prima di tutto sono tanto una spettatrice anche. Sento le due cose però quando tu danzi il pubblico ti manda un’energia e tu mandi un’energia al pubblico. Quindi succede qualche cosa con il pubblico. Oppure no. È come un rapporto un po’ di coppia. C’è quando può andar bene e quando può andar male. Quando c’è il pubblico qualcosa cambia. Cambia anche molto se è vicino a te o lontano da te. Cambiano tutte queste relazioni. Però è chiaro che noi danziamo, noi ci esprimiamo per qualcuno, il rapporto con il pubblico è fondamentale.
– In quel periodo di quarantena voi sicuramente facevate le prove, il video?
– Purtroppo gli spettacoli non si potevano fare e abbiamo trasformato alcuni spettacoli che dovevamo fare in prodotto video e questo ha spalancato un altro campo d’indagine perché è completamente diverso fare il video rispetto a una performans live. Ed è stato molto interessante e continua ad esserlo. Penso che comunque quel tempo ci sia servito anche per capire che la danza si può esprimere attraverso il video però bisogna essere molto rigorosi e capire che sono due prodotti diversi e quindi devi avere una conoscenza diversa per affrontare un progetto video.
– Da chi viene l’idea di creare un progetto, che cosa vi stimola a creare?
– In questo caso mi sono chiesta: che cosa di quello che dovevamo fare possiamo trasformare in un video? E quindi l’idea non è nata proprio spontaneamente. È nata sicuramente per la necessità ma anche per la necessità di nutrire un gruppo. Il gruppo lavorava nella sala prova, ma aveva bisogno anche della scena. Questo era un modo per stare in scena. L’idea è venuta a me e poi dovevamo scegliere dei luoghi. Abbiamo fatto un progetto al Castello di Rivoli al Museo d’arte contemporanea. È chiaro che è il posto incredibile perché abbiamo dovuto dialogare non soltanto con lo spazio ma dialogare con le opere degli artisti e dialogare con la musica. Devo dire che io vado a fare degli soppraluoghi dove prendo le intuizioni e poi ho un teem con cui progetto però diciamo che il fulcro è quello del rispetto. Quindi dovevo rendere il prodotto organico, non troppa danza, non troppa musica, doveva essere tutto equilibrato. Tutte le cose sono importanti: lo spazio è importante, le opere sono importanti, i danzatori sono importanti, i musicisti sono importanti. Ed è difficilissimo. Però poi quando riesci a rispettare tutti è bello.
– Quando stavo gurdando i vostri performans mi sono ricordata subito della scultura di Michelangelo, di Roden che sembrano cominciare a prendere vita. Che rapporti hai con l’arte visuale? Magari hai qualche artista preferito?
– Io lavoro molto per le immagini. Non ho un artista preferito, ma sono molto curiosa e quando vedo un’immagine anche se da un social, o per stada, o da un libro, o da una rivista la fotografo. Poi non tutto viene utilizzato di quello che faccio. Quindi un’immagine visuale entra assolutamente nella mia forma di lavorare e poi cerco di tradurla con il corpo.
– E se dovessi nominare qualche tipo d’arte non legata alla danza che fa gran parte della tua vita, cosa nomineresti?
– In questo momento (perché io vado a periodi) sono molto legata alla poesia. Trovo nella poesia cosa che non trovavo prima: ispirazione. Ultimamente Chiandra Candiani mi ispira molto. È collegato anche alla parola. Stiamo facendo i laboratori anche con l’uso della voce perché penso che faccia parte del corpo e vada allenata.
– Forse è una domanda fuori tema, però la faccio: il gesto è una cosa atavica, preestorica, prelinguistica, una cosa con cui riusciamo ad esprimersi tutta la nostra sostanza e le sfumature dei nostri sensi. Secondo te, a quale scopo ci è data la lingua?
– È vero però la lingua per me è anche un suono quindi secondo me dobbiamo riportarlo al primordiale, ai primi kiborg, perché comunque il suono c’era e mettevamo i suoni. Per cui sto vedendo la parola non tanto come la recitazione o come l’impressione. Fino a poco tempo fa lavoravo pensando dalle spalle in giù mentre anche il nostro viso è collegato alla parola. Perché quando noi parliamo ci sono i muscoli che si muovono. E adesso mi sono resa conto che l’energia era bloccata per cui mi interessa adesso portare l’energia fino alla mia testa e questo comprende una parola, le smorfie e tutto, l’energia va fino in fondo. In questo senso trovo che anche la parola non nel senso tradizionale abbia il suo valore.
– Hai detto che lavorando senti l’energia. Possiamo dire che la persona che si occupa della danza è diversa dalla persona che non sa danzare perché sente di più questi flussi di energia mentre si muove?
– Diciamo che noi siamo allenati a sentire l’energia e io penso che chiunque senta l’energia non è necessario fare quello che facciamo noi per sentirla. Noi però passiamo tutta la vita ad aprire i nostri canali sensoriali per sentire più possibile. E forse anche per questo siamo molto fragili. Sentiamo tanto e proprio per questo dobbiamo sempre pulire il nostro canale. Perché se il canale è pieno non entrano le informazioni e non entrano neanché le sensazioni. Anche noi possiamo essere completamente chiusi e non sentire niente.
– E come si fa a pulire questo canale?
– Come ho detto vado a cicli. Ho passato il periodo dello joga, adesso sono in periodo della meditazione, che penso che aiuti molto anche a rendersi consapevoli del fatto che siamo pieni per esempio. Una cosa che mi libera molto è sentire il corpo, quando ho dei pensieri ritornare al corpo, alle sensazioni di come mi appoggio per terra, di come tocco qualcosa, di come sento gli odori. Prima non me ne rendevo conto. Invece praticando la meditazione faccio più caso a notare queste cose.
– Che cosa viene per primo: l’intelletto o la sensazione oppure tutti insieme?
– Per me sono legati. Non si può essere la sensazione senza coinvolgimento del pensiero. Però direi che si tratta di cuore. È tutto lì. Una cosa. Il cuore. Quello che passa lì è tutto: l’intelletto, la sensazione. Solo una cosa che dobbiamo sentire: il nostro cuore. Sembra troppo romantico però è così.
– Sei stata in molti paesi. С’è qualche paese o magari un posto nel mondo dove vorresti ritornare?
– Non vorrei proprio definire ma ora direi che è Kiev. Perché è stata una delle tournee più bella della mia vita. Cuba è stato veramente fantastico. Ma devo dire che quando si viaggia c’è la bellezza ovunque. Adesso ti dico questi due però anche New-York, anche Tel Aviv per esempio. Il viaggio in Israel mi ha cambiato molto. Sono un’amante del viaggio. Ho bisogno di viaggiare anche per raccogliere intuizioni e respirare le culture diverse. Quello per me è molto influente.
– Oggi tutti viviamo in un periodo che non ci permette tanto di viaggiare ma ci sono anche le cose per cui possiamo ringraziare questo tempo, per esempio la possibilità di conoscere diverse persone online.
– Sì infatti, in questi tempi io ho imparato tantissimo. Questo periodo mi ha regalato le costruzioni di relazioni che non avrei mai fatto prima. Mi ha regalato un tempo come adesso noi stiamo dialogando che non avremmo fatto mai, io provo anche delle emozioni molto forti con lo Zoom perché se questo mezzo viene usato in maniera intelligente crea l’opportunità che io sinceramente non voglio abbandonare.
– È ovvio perché ci sono tantissime persone con cui possiamo collaborare, comunicare in una giornata. Prima non era così.
– Assolutamente. Oggi la mia giornata è cominciata con una puntata registrata su Zoom, poi ho fatto un’altra video intervista e adesso questa. Non avrei mai potuto farlo senza spostarmi.
– Ho esaurito tutte le mie domande. Sei una persona molto precisa e sai rispondere in breve e in modo molto chiaro.
– Guarda, anche questo è stato un continuo allenamento perché questo per me è come essere in scena perché comunque è difficile. Ho imparato con l’allenamento a capire come esprimermi, usare le parole giuste, mi sono resa conto di quanto sia importante anche la scelta delle parole che usi. Però sono in continuo allenamento perché così si impara.
Ringrazio vivamente Lisa Evteeva per l’opportunità di conoscere Viola Scaglione.